Il racconto che pubblichiamo è frutto di invenzione letteraria e non corrisponde alle vicende di persone reali. Tuttavia, si basa sulle storie e sulle esperienze vissute da parte di chi ha subito la violenza feroce della malattia che l’amianto provoca, e di chi ha lavorato in quelle realtà produttive dove l’amianto era lavorato. E’ stato pubblicato nella raccolta “lavoro vivo”, per l’editore Alegre, al quale va il ringraziamento per l’autorizzazione a riportarne il testo in questo sito. (www.ilmegafonoquotidiano.it)
di Massimo Vaggi
A Guido, Franco, e tutti gli altri
Mi chiede cosa sia cambiato da allora, in tutti questi anni? Ah, ma è domanda troppo difficile, non so se un vecchio come me può darle una risposta qualsiasi. Insomma, come faccio a saperlo? Non me l’aspettavo, davvero, credevo volesse chiedermi solo della fabbrica e della malattia. Soprattutto della malattia. E poi, cerchi di comprendere, nella situazione in cui mi trovo le difficoltà aumentano perché mi sembra tutto molto confuso, più di quanto sarebbe comunque per un uomo della mia età, voglio dire. Il fatto è che non lo so proprio, come vanno le cose, e per la verità nemmeno mi interessa molto perché ormai le osservo troppo da lontano, come se fossero destinate per sempre ad altri e non più a me. E guardi che nella mia condizione non è mica un modo di dire.
Oh, lasci stare, non sono uno che fa finta di niente. Lo so benissimo, ormai tutto quanto nella vita sta scivolando via e ciò che rimane è poco più di un ricordo, o un’eco, che in fondo è la stessa cosa, e da qui dove sto, così distante, ascoltandolo come se fossi seduto sull’altro versante della montagna, mi pare ogni giorno sempre meno nitido, perché sono immerso in una nebbia fitta che impedisce di sentire i suoni e distinguere i colori. Allungo la mano e non riesco a toccare nulla, stringo gli occhi e non vedo meglio, ma solo grigio. Capisce?
Non è questo. Non ho nessuna incertezza sul futuro e su quello che mi aspetta, come potrei? E non ho paura. Per dirla tutta non sono nemmeno arrabbiato, non più. Anzi, mi sento in pace come non sono mai stato. Certo che lo so che la mia malattia ha dei responsabili, ma non ho più tempo per farne una colpa a nessuno. Quello che rimane non basterà nemmeno per mettere a posto un paio di cosette che mi stanno molto a cuore, figuriamoci per cercare vendette o giustizia. E’ che a questo punto le emozioni, le idee, la vita stessa, tutto mi sembra, come dire, eventuale? Vivo con tanta forza come non ho mai fatto, eppure senza la minima pretesa. Mi spiace, non so se riesco a spiegarmi.
Ecco, questa domanda mi trova più preparato. Allora facciamo così, che adesso ci mettiamo comodi e prendiamo un caffè. Cioè, lei lo prende e io le tengo compagnia, che è da un po’ di mesi che non posso berlo. Mi viene subito la nausea, per cui devo accontentarmi del profumo. Però per raccontarle come si deve una fabbrica che non c’è più ho bisogno di tempo, e non c’è niente di meglio di quello che ci vuole per prendere un caffè seduto su una poltrona comoda, senza fretta. Facciamo finta che per lei non è giorno di lavoro ma una domenica mattina di dolce far niente oppure, come si dice da queste parti, che l’é acsé fèsta che gnanc i pasarén fan al nîd. Lei è di Bologna? E’ una bella frase, significa che è talmente festa che neanche i passerotti fanno il nido. Ecco. Da dove vuole che cominciamo?
Va bene, allora le racconto cos’era, la fabbrica. Ma prima mi lasci spiegare una cosa. Io al mio lavoro ci tenevo molto, che non era una cosa come ne capitano tante nella vita che vanno e vengono e si dimenticano da un giorno all’altro e non lasciano nessun segno, ma invece un fatto che quando la sera uscivo dalla fabbrica mi sentivo davvero soddisfatto. Avevo studiato fino a diciotto anni per diventare un bravo meccanico e mi ero impegnato un bel po’, siccome quelli erano tempi in cui le famiglie facevano grandi sacrifici per mantenere i figli a scuola e se non c’erano subito i risultati col cavolo che continuavano a tirare la cinghia.
Sì, le hanno raccontato bene. Le Officine erano una specie di Università artigiana. C’era sapienza, là dentro. Deve considerare che l’azienda veniva dagli anni della produzione bellica, quando gli operai, volenti o nolenti, si erano abituati a inventarsi le soluzioni da soli. Glielo dico io, siamo sempre stati i più bravi. Perché mai altrimenti un padrone doveva decidere di investire in uno stabilimento che stava nel cuore del quartiere più rosso di una città rossa? E invece era andata proprio così. Mi ricordo che i primi anni la fabbrica era terribile. Non c’erano i pavimenti, i bagni facevano schifo, si mangiava un panino di nascosto durante i turni, non c’era riscaldamento e d’inverno si gelava, insomma quando ho visto i miei futuri compagni per la prima volta, tutti sbrindellati e unti, ho pensato che lì dentro non ci sarei rimasto più di un mese. Invece mi sono accorto quasi subito che tutti, anche se lavoravano con attrezzi rovinati e mazze arrugginite e lime grandi come spade, ci sapevano fare davvero. Ho capito che ce la mettevano tutta perché erano orgogliosi di quello che facevano ed erano certi di avere un compito importante, siccome si fa presto a dire, ma la gente quando viaggiava metteva il sedere, mi scusi la parola che magari lei non può scrivere sul suo giornale, ma insomma è proprio il sedere che metteva sui sedili delle carrozze montate dentro le Officine. Avevamo una bella responsabilità.
Certo che sì. Questa cosa non è facile da spiegare a chi non ha mai visto, che ne so, un freno Westinghouse. Non pretendo che lo conosca, ma si fidi lo stesso, era una meraviglia della tecnica che ci lasciava tutti a bocca aperta. Noi costruivamo dei gioiellini, altro che.
Fino agli anni ’90. Lei sa cosa vuole dire un treno? Io ho sempre pensato che bisogna essere bambini per capire veramente cosa sia un treno. E’ una cosa che viaggia, prima di tutto, e questo è il fatto decisivo. Ma non solo: si muove in avanti e sposta da una città a quella dopo, e da un’ora alla successiva. E’ una cosa magnifica, ma che funziona solo se ti porta da un’altra parte che magari conosci bene ed è casa tua e magari no, qui sta il bello, ma anche se ti riporta a casa è sempre in un tempo diverso nel futuro, altrimenti non serve a niente. Ci pensi bene. E poi succede che ti accompagni in un luogo dove non sei mai stato e puoi permetterti di immaginare sarà meglio di qui, e di adesso. Oggi si fa fatica a ragionare in questo modo ma allora no, perché davanti a noi c’erano sempre e solo cose che pensavamo migliori, e quando si parlava di tempo si parlava di futuro. Ecco perché i bambini si imbambolano a guardare passare i treni e li salutano con le manine e si chiedono: chissà dove sta andando. Sono una macchina meravigliosa che nessuno ferma, per cui si immagini la soddisfazione che provavamo ad averne costruito anche solo un pezzettino. Ecco perché stavamo attenti a fare le cose a modo e non ci faceva certo paura lavorare forte e imparare quello che c’era da imparare. Ero giovane, poi, lo eravamo tutti. Avevamo tanta voglia di far bene che anche i capi lo capivano perfettamente e quando venivano da noi ci dicevano magari “ohi, te pensa a lavorare”, che non sempre lo facevamo perché c’era il sindacato e c’erano gli scioperi e insomma c’era tutto il resto, perché la vita, ah! questa vita, non è solo un treno, oppure ci insultavano e noi masticavamo amaro siccome le cose andavano in questo modo e vanno ancora così, che c’è chi comanda e chi mastica amaro, ma nessuno mai ha potuto dirmi: “Cotti, tu fai male il tuo lavoro”. Nessuno ha potuto farlo. Mai.
Sì, è così. Noi costruivamo carrozze per le Ferrovie dello Stato. Vuole che le spieghi come si faceva? Le interessa? Bene. Abbiamo cominciato nel 1960 ma io sono arrivato un po’ dopo, perché sono stato assunto all’inizio del 1963. Le Officine venivano da un decennio difficile in cui c’erano stati molti licenziamenti, ma in quegli anni era cambiato il vento perché si era iniziato il lavoro per costruire le prime elettromotrici. Mi ricordo le sigle: serie ALE 601 e LE 601. Un appalto importante, però ben presto sono state le carrozze passeggeri a diventate la produzione principale, chissà quante volte ci ha viaggiato anche lei in uno scompartimento che hanno costruito gli operai delle Officine. Comunque. Dentro la fabbrica arrivava il telaio nudo, ancorato a un carro ponte che correva sui binari, e per prima cosa lo spruzzavamo con i fiocchi. Poi lo vestivamo, saldavamo le fiancate e i tracciatori e i falegnami inserivano quei maledetti pannelli nel pavimento e nelle intercapedini. Sega, taglia, misura, e non andavano mai bene e bisognava tagliare ancora, e ancora segare. Era un lavoro lungo e di fino. Poi il carro veniva trascinato in un capannone dove altri falegnami montavano tutto quello che ancora mancava: tavoli, mensole, sedili, staffe.
Io sono stato assunto come garzone, poi tracciatore, poi carpentiere. Saldatore-carpentiere, per la precisione. Da un certo momento, perché avevo un diploma, mi hanno assegnato al reparto che si occupava delle modifiche e delle rettifiche dei progetti originali delle carrozze. Sempre all’interno dello stesso capannone, è chiaro. Un lavoro piuttosto complicato, ma comunque un lavoraccio. Passavo metà del tempo a smerigliare e a raschiare, e pensi che i pannelli li usavo per proteggermi dal calore durante le saldature. E’ stato dopo qualche anno che sono diventato caporeparto.
Se era grande? Oh, sì che era grande, non l’ha mai vista? Dovrebbe farci un salto, un giorno, così capirebbe meglio e subito. E’ grande come una piccola città. Non sto scherzando, quando superavi il cancello sembrava proprio di entrare in una città antica, di quelle con le mura intorno, se non che gli edifici erano quasi tutti del primo ventennio del secolo scorso, e di troppo moderno, per un borgo medioevale, c’erano pure i binari, che partivano dalla rete ferroviaria e arrivavano fin dentro la fabbrica, ben divisa con i suoi cortili, i magazzini, i capannoni della produzione, gli uffici, che sono ancora in piedi, anche se ormai tutti scuri e affumicati e con i vetri rotti e le porte sfasciate, perché adesso lì dentro ci vivono solo i gatti e gli spacciatori. E’ diventata una zona pericolosa, ma così pericolosa che è meglio entrare solo con la polizia, avrà letto che la settimana scorsa una ragazza è stata violentata da un gruppo di balordi.
Sì, ci sono tornato qualche volta, l’ultima è stata quando la fabbrica era già definitivamente chiusa. Mi sono appoggiato al cancello per guardarci dentro ma ho resistito pochissimo perché, qualunque cosa vedessi, mi faceva venire in mente qualcos’altro, se ad esempio fissavo il portone dell’edificio principale lo immaginavo spalancato, d’estate, con me dentro al capannone che lavoravo con l’ossiacetilene. Se invece mi cadeva l’occhio sul cortile grande mi ricordavo di una partita a pallone, una delle mille che abbiamo giocato nell’intervallo di mensa. Non può neanche immaginare la malinconia, una roba che non ce l’ho fatta a entrare, perché era come se annusassi ancora l’odore della saldatura e sentissi i rumori di ferraglia dei macchinari e le voci dei miei compagni e li vedessi, tutti lì e tutti giovani, anche quelli che non ci sono più. Che parlavano, e ridevano. Oppure che facevano i cortei interni o i picchetti dello sciopero del ‘68, quello che non finiva mai. Eravamo una comunità straordinaria, sa? Capaci di occupare la fabbrica per contestare le tariffe del cottimo ma anche di partire tutti insieme per l’Irpinia dopo il terremoto o di organizzare in Piazza Maggiore la distribuzione ai barboni dei pacchi natalizi che l’azienda mandava, e noi non volevamo. Ma sono nostalgie da vecchi, queste, lasciamo perdere.
Non credo: là dentro c’è ancora tutto e anche i binari sono al loro posto ma pieni di erbacce che fanno solo tristezza. Bisognerebbe mettere in ordine e farci un museo, ecco cosa dovrebbero fare. Invece sta andando a pezzi.
Non si preoccupi, mi passa presto, devo solo fermarmi qualche istante.
Va meglio, sì. E’ che quando parlo troppo a lungo capita che mi manchi il fiato, la tosse aumenti e mi sembri di soffocare. Ma ascolti, visto che siamo in argomento glielo voglio dire. Non si deve sentire in imbarazzo. No, no, mi creda, ho imparato a riconoscere i pensieri della gente, che quando m’incontra e vede quest’armamentario non riesce a concentrarsi su nient’altro: poveretto, pensa, e mi accorgo che si sente a disagio a tal punto che vorrebbe solo andarsene lontano da questo sfacelo. Sono diventato quasi un indovino, guardi un po’, è un regalo della malattia, come se riuscissi a vedere cose che nessuno vede e capissi quello che agli altri sfugge. E’ vero che sarebbe stato meglio se fosse successo prima ma cosa ci possiamo fare, caro mio, prendo quello che c’è e insomma io so che è così, che questa bombola e la valvola e i tubi che mi entrano nel naso fanno impressione o addirittura paura, perché non è normale che un uomo per respirare se ne debba andare in giro trascinandosi dietro una bombola. Sono convinto che non è per niente facile avere a che fare con qualcuno che è malato davvero ed essere costretto a pensare che sta morendo e leggere sul suo volto, appena dietro l’angolo, il niente che sarà uguale per tutti, e invece doverci parlare come se nulla fosse e risultasse semplice trovarsi a riflettere sul fatto che a questo mondo capita di arrivare e partire in un baleno, senza nemmeno il tempo di salutare come si deve. A stare accanto a chi sa di morire, dopo un po’, ci si sente troppo vicini al suo dolore, chi potrebbe sopportare una cosa simile?
Chi più, chi meno, tutti. A parte mia moglie e mio figlio e qualcun altro, è naturale, ad esempio il mio amico Giacomo che ormai si è abituato a questi tubi e non ci fa più caso. All’inizio però non era così nemmeno per lui, quando stavamo insieme non si capiva chi dei due stesse peggio. Poveraccio. Era sempre bianco come un cencio, con quegli occhi scavati e spaventati come se volesse dire: non mi fare degli scherzi, eppure non sono mica il primo che ci lascia le penne a causa di questa maledetta malattia. Siamo morti in tanti, ormai. Curioso, ho detto “siamo morti”. E’ così. Per quindici anni di fila ci siamo ritrovati con i vecchi compagni, almeno una volta all’anno per la nostra cena di zampetti di maiale, e ogni volta facevamo la conta di quelli che non c’erano più e scherzavamo pure, dicendo, ma dai, sei ancora vivo? Però un conto è incontrarsi quando si cammina e si sta in piedi anche se qualcuno se ne è andato, e un conto è ritrovarsi così, tra tubi e bombole che ti ingarbugliano. Ma lui è Giacomo! Anzi, Giacomino, perché è grande e grosso. Abbiamo passato metà della vita insieme, ma a un certo punto ha preso una strada più importante ed è diventato sindaco. Insomma a furia di vedermi così ci ha fatto l’occhio a tutta la mia cianfrusaglia, non ci bada più e fa da autista. Mi viene a prendere in macchina e se c’è bisogno mi porta in Ospedale o dove ho bisogno di andare oppure se è una bella giornata di sole dice, dai che andiamo a divertirci, e invece facciamo solo un giro sulle colline, che poi è sempre lo stesso giro. Arriviamo al solito posto, dove la città, che è appena alle nostre spalle con il suo rumore e le persone e quel movimento che non ci interessa, non si vede più e possiamo fare finta che non esista neanche e che ci siamo solo noi due con tutte le cose che abbiamo ancora da raccontarci. Allora parcheggia la macchina e scendiamo per sederci su una panchina che guarda verso i calanchi. Io a dire il vero non so più se ho voglia di farlo perché ormai sto meglio a casa mia, ma non me la sento di confessarglielo. Mi sembra che lo deludo, è che lui si sforza di farmi vivere, capisce? Stiamo lì e parliamo fino a che non mi viene un attacco di tosse più forte degli altri e allora gli ricordo che è ora di tornare, ma intanto abbiamo parlato e parlato e riso, anche, e ci siamo ricordati di questo e di quello e ci siamo convinti di conoscere qualcosa della città che nessuno conosce, perché abbiamo lavorato insieme alle Officine per trentadue anni. Giacomo è un po’ più giovane di me. Trentadue anni di fabbrica e di sindacato, insieme, sono quasi come un matrimonio.
Bene, allora facciamo così: lei non si senta affatto costretto a far finta di niente, non distolga lo sguardo dai tubicini nel naso e non si sforzi di dare l’idea che il mio colore giallo non la impressioni, perché io adesso sono questa cosa qua e se lei sta seduto sul mio divano e beve il caffè che ha preparato mia moglie è con me che sta parlando e non con il Cotti di qualche anno fa che stava bene e di giallo in faccia non aveva niente.
Non si scusi, non c’è niente da scusarsi, magari sono io che sono diventato troppo diretto o brutale, ma sto morendo, vede? Non è mica una cosa da poco, vuole dire che oggi vedo fuori dalla finestra che è una giornata così così, né bella né brutta, tanto che molti la dimenticheranno già domani mattina, ma io non posso perché è unica e forse domani per me non ci sarà nemmeno più la finestra. Sa cosa mi impressiona e mi spaventa? La luce. La mattina mi sveglio presto e seduto davanti alla porta del balcone osservo il giorno che piano piano si illumina fino a rendere chiaro tutto quello di cui non mi sono mai accorto prima, e che oggi invece è tanto importante perché così precario, come sabbia, come aria in un pugno stretto. Sì, lì per lì mi spavento, e mi capita anche di fissare ogni cosa con avidità, come se la volessi ingoiare per non farla sparire, ma poi mi fermo, faccio un respiro un poco più lungo, per quanto riesco con questi tubi, e tutto passa e l’ansia lascia il posto a una sensazione diversa che non so neanche definire. Potrei dire che è affetto. Perché mi rendo conto che sto solo salutando, un saluto al mondo che continua. Insomma, la situazione è questa, e ritengo di avere almeno il diritto di non essere obbligato a inventare giri di parole e di poter arrivare subito al sodo siccome mi sembra di avere delle cose da dire e così poco tempo per farlo…
Sì, pensi che l’ho ripetuto anche al Giudice. E’ andata così, che ha promesso che cercava di organizzare tutto in fretta, i testimoni e la visita del medico suo consulente. L’avvocato mi ha spiegato che stava facendo quanto poteva per rendere il processo il più veloce possibile, ma gli ho detto, non si preoccupi, signor Giudice, che tanto all’udienza che fisserà, anche se sarà vicina, io non ci arrivo. Non volevo offenderlo, anzi, perché mi è sembrato una brava persona che mi è stata a sentire e mi ha trattato con molta attenzione ma è che le cose stanno proprio così, e se stanno così non possiamo farci niente, né io né lui. Gli ho detto che non bisogna rammaricarsi per quello che è inevitabile. Non sapeva cosa rispondere e anche l’avvocato della ditta era imbarazzato ma questo mi è spiaciuto di meno, perché in fondo poteva anche non difenderla, la ditta. Sarà pure simpatico, mi stringe la mano e fa una faccia di compassione ma nessuno lo costringeva a difenderla.
Fa il suo mestiere? Sarà, ma poteva scegliere un altro modo, e poi non tutti i mestieri sono uguali.
Eh, già, anche a me sembra impossibile. Tutto per quei fiocchi e per gli aghi che ho respirato. Noi non sapevamo niente, nessuno ci aveva avvisato di quanto fosse pericoloso, anche se i medici lo dicevano già da anni e anni che l’amianto era terribile e causava non solo questa malattia che mi ha preso ma anche altri tumori. E’ che nessuno li stava a sentire. Tanto meno la dirigenza dell’azienda, che badava agli affari suoi, ma neanche lo Stato. E’ la storia di sempre, e cioè che prima di tutto viene la fabbrica, perché si dice che con la produzione arrivano i posti di lavoro e con i posti di lavoro il benessere, e poi ci sono i giovani e il loro futuro, e insomma quante volte mi sono sentito ripetere le stesse cose. Solo che stavolta il giocattolo è scoppiato. Prima spremuto a dovere e poi scoppiato.
Noi? Guardi, le rispondo per me ma son sicuro che è stato così per tutti. Io mi sento malissimo quando penso a quanto fossi ignorante. Non so nemmeno contare le volte in cui sono ripetuto, se avessi studiato, se mi fossi accorto del problema, se avessi avuto un’intuizione, e se e se e se, magari molti dei miei compagni sarebbero ancora vivi, perché noi del consiglio di fabbrica e poi della RSU eravamo davvero forti, e se avessimo voluto eravamo capaci di bloccarla, la produzione. Invece non conoscevamo niente di niente, e quando si parlava della sicurezza in fabbrica si improvvisava e basta. Si riduceva tutto alle cose più evidenti. C’è troppo rumore? O troppa puzza? Ecco, questi per noi erano i problemi della sicurezza, che comunque erano secondari perché dovevamo pensare al cottimo, al salario, ai turni. D’altronde non è che gli operai ci seguissero così tanto su questo terreno. Non erano interessati, invece non si trattava delle scarpe antinfortunistiche, per dire, che se i lavoratori non le volevano noi insistevamo un po’ e poi gliela davamo su. Con l’amianto non si scherza. Invece facevamo proprio così, ci scherzavamo. Come i bambini. Ne infilavamo dei pezzi giù per il coppino dei compagni, perché quelli dopo si grattavano come dei matti, oppure giocavamo a palle di neve con l’impasto di fiocchi e colla. Un disastro. Non so se sia giusto o meno, ma mi sento addosso una colpa enorme, perché sono uno della vecchia scuola, che pensa che un’avanguardia deve sapere le cose, tutte le cose.
Ma no, quali mezzi di protezione. Non avevamo niente, magari qualche mascherina di carta ma solo quella. Che l’amianto se ne fa un baffo, delle mascherine di carta. E così sottile che per produrre qualcosa che assomigli a una polvere ce ne vuole una quantità enorme, e veda bene che dentro l’Officina di polvere ce n’era sempre, dappertutto, bianca e soffice come zucchero a velo. Quando entrava il sole da qualche fessura potevamo vedere nella lama di luce tutte queste particelle che ballavano leggere, e a me sembrava onestamente un bello spettacolo. Pensi che al centro dell’Officina c’era un posto dove lavoravano gli operai di una ditta in appalto, che dentro a una camera formata con i teloni di cellophane spruzzavano le fiancate delle carrozze di amianto in fiocchi. Sono morti tutti. Ci crede? E invece a quei tempi l’unica cosa che facevamo era di prenderli in giro perché alla fine della giornata sembravano dei fantasmi, tutti bianchi sui vestiti e i capelli e anche intorno agli occhi, coperti di polvere ballerina come le siepi d’inverno con la galaverna, ma se ne fregavano. Gli dicevamo, dì ban so, fantèsma, e loro che non erano di Bologna non capivano niente. Ah, già, neanche lei è di Bologna. Beh, non importa.
Insomma, è andata. Non posso sapere di preciso quanti, ma io sono convinto che siamo morti almeno in settanta. Tutti operai. Ha visto? Ho detto ancora “siamo morti”.
No, nessun dirigente, si figuri. Sa come diciamo a Bologna? Quelli, i an al paradîs in st månnd e, s’i vôlen, anc in cl èter. Però questa gliela traduco, stia tranquillo, vuole dire che hanno il paradiso in questo mondo e se vogliono anche nell’altro.
Esatto, perché in fondo in fondo il destino della fabbrica a loro non importava per nulla, e non erano certo di quella razza di comandanti gentiluomini che affondano insieme alla nave. Mi spiego, voglio dire che al capo del personale interessava che non ci fossero problemi e al dirigente commerciale che si facessero dei buoni contratti e al tecnico che non venissero commessi errori, ma insomma la usavano, la fabbrica, e di conseguenza usavano tutti noi. Tanto più la proprietà, i soci. Le Officine servivano per produrre soldi e non carrozze, questa è la differenza, oltre che per aumentare il loro potere e magari anche per avere la soddisfazione di guardarsi allo specchio la mattina mentre si facevano la barba e dirsi: bravo, nel tuo lavoro sei proprio bravo, ma, non dico di noi, almeno dei treni, gli stava a cuore davvero? Macché, l’hanno fatta andare fino a che si poteva, poi hanno chiuso e non hanno nemmeno voluto venderla a chi era disponibile a continuare l’attività, perché il valore dello stabilimento ormai era soprattutto l’area dove sorgeva, altro che. Pensi! Un lotto enorme che con l’espandersi della città si trovava praticamente in centro, una miniera d’oro. Invece è andata male e adesso si dice che finisce tutto in fallimento. E a me, che ci tenevo più di loro, dopo trentaquattro anni di lavoro è rimasta questa malattia.
I medici se ne sono accorti un anno fa. All’inizio accusavo un po’ di fatica nel respiro, ma niente di particolare, poi ho cominciato ad avvertire un dolore continuo alla schiena, però se non fosse che ho lavorato alle Officine nessuno avrebbe subito pensato al mesotelioma. E invece. Qualche ago che si è incistato, dicono che in teoria ne basti uno per creare questo sconquasso, e poi dopo quarant’anni di silenzio eccolo qua, che esplode. A un certo punto la pleura si è gonfiata come un pallone e da allora è stato un dentro e fuori dall’Ospedale per togliere liquido e per le sedute di chemioterapia fino a che, eccomi, sono messo così.
Sì, praticamente tutti li conoscevo. Gliel’ho detto che ho lavorato trentaquattro anni alle Officine. La settimana scorsa è morto un falegname, me lo ricordo bene perché è stato anche nel consiglio di fabbrica e insomma si dava da fare con il sindacato anche se non troppo perché era uno che pensava quasi solo alle donne. Sempre. Le aveva in testa come un’ossessione. Adesso anche questo mi sembra impossibile e mi fa quasi ridere, cioè che a qualcuno capiti di avere un’ossessione, che non si capisce se lo ha accompagnato o lo ha tormentato per tutta la vita. Per cosa, alla fine? La verità è che siamo proprio niente e soprattutto non abbiamo niente, se lo lasci dire da uno che non può fare altro che guardarsi indietro e così vede solo un mucchio di cose tanto fragili e tanto brevi, anche quelle che sembrano grandi come città e forti come il cemento. Pensi alla mia fabbrica, che è finita in nulla e che per questo nulla ha ucciso decine di persone e rovinato la vita a molte altre. E che invece scomparirà e quando non ci saremo più tutti noi operai nessuno ricorderà cos’era davvero. Oh, magari in qualche libro ci sarà una sua fotografia, certo, ma l’odore di olio bruciato e l’aria delle assemblee satura del fumo delle sigarette che tutti fumavano e che io non sopportavo, eh, tutto questo che poi sono le cose più vere non resisteranno ai prossimi trent’anni.
Questo fatto sì che mi fa ancora incazzare, che la fabbrica siamo stati noi che ci abbiamo rimesso la pelle e che invece quelli là l’hanno spremuta e poi lasciata andare. A volte penso che su un treno non sono nemmeno mai saliti.
Esatto, proprio così. E’ stata la mia famiglia allargata. Si dice sempre che quello che resta sono le persone e le idee, che se ci si pensa è quello che ha avuto più importanza o valore, ma spesso è tanto per parlare, perché un conto è ripeterlo come un ritornello o una frase fatta, insomma se lo dice lei, mi scusi, che è giovane e sta bene, e un conto è che lo dica io. Allora diventa una verità pesante come una montagna.
No, non è così semplice, perché ho fatto grandi errori. Mi ascolti ancora un momento, vorrei parlare di un’ultima cosa, che riguarda mio nipote ed è la mia angustia maggiore. Io sono nonno. Mio nipote ha sedici anni e credo proprio di aver sbagliato tutto, con lui. Per fare del bene, sa? Ero sempre pronto a sostenere che aveva ragione, a difenderlo, a intervenire con i genitori e a prendere la sua parte, ma non gli ho mai raccontato niente. Di me, voglio dire. Lui non ha la minima idea di chi sia suo nonno, ha solo conosciuto un tizio che quando era piccolo lo portava al parco sulle altalene e poi quando era più grande lo andava a vedere mentre giocava a pallone ma io per non perderlo non gli ho mai raccontato niente di cosa sono davvero, di chi sono. Avevo paura di essere noioso come solo i vecchi sanno essere. Perché ero sicuro che della fabbrica e del sindacato e di quello che ci è successo a lui non interessava niente. E invece adesso mi ritrovo tra le mani quello che merito, cioè niente, e non vuole nemmeno sapere se sto bene o male. Mi ripete che la devo smettere di lamentarmi e che devo uscire di casa e se gli spiego che non ce la faccio mi dice che non è giusto passare il tempo a lagnarsi e basta.
Ma no, le ripeto, sono io che ho sbagliato. Mio nipote è un bravo ragazzo, ma il fatto è che per lui non sono più importante, perché uno della sua età ha bisogno di persone che gli facciano da guida e al contrario io ho rinunciato a lasciare un segno, forse è così. Non gli ho raccontato niente, che cretino, e invece con un po’ di fortuna poteva magari succedere che mi stesse a sentire e addirittura ci capissimo. E invece, siccome mi accontentavo di quella storia delle altalene e di qualche film quando era diventato più grande, ho smesso anche di ascoltarlo e non ho fatto altro che criticarlo perché con i suoi piercing e gli orecchini e i jeans alle ginocchia e la sua aria storta mi faceva girare troppo i maroni e preferivo non chiedermi niente. Ce ne siamo andati ognuno per conto proprio, e adesso siamo così estranei che se verrà al mio funerale magari gli scapperà di piangere ma in fondo in fondo, da qualche parte, si troverà a pensare: che pizza, come dicono i giovani, e sa una cosa? Avrà proprio ragione, per lui sarà davvero un pizza.